Lunedì 25 luglio approda alla Camera dei Deputati la proposta di legge che ha l’obiettivo di legalizzare la cannabis e i suoi derivati nel nostro paese
“Un’implicazione importante e un’efficace politica di riduzione del danno è la legalizzazione di tutte le sostanze” scrive Don Andrea Gallo nel Cantico dei drogati. E prosegue: “A sentire questo molti tromboni cominciano a sbuffare e in tono scandalizzato si sussurrano l’uno nell’orecchio dell’altro: ‘Ma allora qui si vuole un società di drogati’. Stupidaggini. Legalizzare le droghe vuol dire, prima di tutto, darsi nuove regole”.
Un’affermazione forte, una presa di posizione netta su un tema controverso il cui dibattito divide l’opinione pubblica da anni. Si tratta, in effetti, di un problema complesso, con implicazioni sociali, politiche, economiche, sanitarie, culturali e amministrative, a proposito del quale non sempre è facile schierarsi in maniera univoca. Per essere nella condizione di poter operare una scelta ragionata sarebbe necessario soppesare tutti i ‘pro’ e i ‘contro’, tutte le possibili conseguenze. Conseguenze che, per loro natura, possono essere visibili solo a scelte fatte.
Ed ecco che ci ritroviamo nel mondo fuggevole delle ipotesi e delle previsioni, dove possiamo divertirci a generare una miriade di conseguenze, che però saranno sempre solo ‘possibili’ o, nella migliore delle ipotesi, ‘plausibili’. Un mondo ben distante dalla realtà dove, invece, non abbiamo il coraggio di cambiare nulla. Non ci sentiamo pronti a scegliere qualcosa di alternativo solo per vederne le conseguenze. È quasi obsoleto ricordare quanto siamo terrorizzati dai cambiamenti, e quanto invece apprezziamo la quotidianità delle azioni ripetute e dei copioni imparati a memoria. Certo è, come diceva il famoso scrittore Warren G. Bennis, che “se continui a fare quello che hai sempre fatto, continuerai ad ottenere ciò che hai sempre avuto”.
E, in effetti, è esattamente quello che è successo. Centocinquant’anni di ‘guerra mondiale alla droga’ senza risparmio di mezzi non hanno fatto altro che dimostrare che questa tattica non funziona.
A sottolineare la situazione di stallo in cui si trova la legislazione delle sostanze e la necessità di un cambiamento, si ricorda la convocazione, con tre anni di anticipo (si sarebbe dovuta svolgere nel 2019), della tradizionale Assemblea Generale delle Nazioni Unite Speciale sulle droghe (UNGASS). Dalla discussione, svoltasi dal 19 al 26 aprile a New York, si evince principalmente un bisogno di innovazione: non è più possibile che gli organismi di governo mondiale continuino ad applicare le solite politiche antidroga, conducendo il business ‘as usual’. Non si possono ignorare le innovazioni in corso in alcuni paesi del mondo, e da qui la necessità di un “full and honest debate”, invocato più volte dal Segretario Generale Ban Ki Moon durante l’Assemblea.
In effetti, negli ultimi anni, la legislazione che regola il possesso, l’utilizzo e la coltivazione della cannabis è cambiata in alcune aree del mondo. Nel dicembre del 2013 l’Uruguay è diventato il primo stato nazionale ad aver pienamente legalizzato la canapa, seguendo l’esempio di due stati americani (Colorado e Washington) che autonomamente, rispetto alle direttive federali, avevano liberalizzato l’uso della marijuana anche a scopo ricreativo. In Europa la cannabis continua ad essere considerata illegale in Germania, Francia, Italia, Regno Unito, Irlanda, Grecia e Finlandia. L’Olanda per ora resta l’unico paese dell’Unione Europea ad averne depenalizzato il consumo, il possesso, la vendita e la coltivazione: si può acquistare presso gestori autorizzati e controllati dallo Stato (i.e. Coffee Shop) e può essere coltivata per uso personale. In Spagna, invece, la questione è assai più controversa: da una parte è considerato illegale possedere marijuana e farne uso in luoghi pubblici, dall’altra parte è legale coltivarla e fumarla all’interno delle mura domestiche. In Portogallo invece, ne è stato depenalizzato l’utilizzo (come per ogni altro genere di droga, provvedimento del 2001) ma, si continua a procedere con l’arresto o l’invio a centri di riabilitazione nel caso si venga trovati in possesso di tale sostanza. La Svizzera, infine, ne ha depenalizzato il possesso e la coltivazione, ma continua a considerare illegale la vendita e l’utilizzo.
L’evidente schizofrenia delle regolamentazioni mostra come l’ostacolo principale alla legalizzazione di questa droga non sia tanto la droga in sé quanto il fatto di averla precedentemente proibita. Sono infatti ormai innegabili gli usi terapeutici del delta-9-tetraidrocannabinolo (THC), uno dei più noti principi attivi della canapa, per la cura del dolore, delle convulsioni e delle spasticità muscolari. Di recente, inoltre, la scoperta di due tipi di recettori dei cannabinoidi, il CB1 e il CB2, ha portato allo sviluppo di nuove tecniche terapeutiche.
La proibizione di una sostanza, però, apre uno scenario ben diverso dall’analisi scientifica e razionale dei suoi effetti; rimanda ad un’idea morale e familiare di protezione. Il legislatore-padre proibisce la droga ai cittadini-figli, e lo fa ‘per il loro bene’. Come se loro, troppo piccoli, ignoranti e sprovveduti, non fossero in grado di andare oltre al piacere immediato generato dalla sostanza e dovessero per questo essere protetti dalle condotte dannose per loro stessi. Una norma decisamente paternalistica se consideriamo che non siamo disposti a permettere allo Stato di intromettersi tra noi e i nostri piatti, le nostre sigarette o i nostri bicchieri di vino. Eppure sappiamo benissimo che una cattiva alimentazione, una vita sedentaria, il fumo di tabacco, l’alcol e i troppi caffè nuocciono alla nostra salute.
Questo perché, come sostenuto da Peter Cohen in un recente intervento al convegno “Droghe, ripartiamo da Genova”: “la salute non è un argomento. Non lo è mai stato. Lo è il diritto umano ad esporsi a potenziali effetti positivi, così come è nostro diritto poterci esporre ai pericoli. Lo Stato non può obbligare nessuno a massimizzare la propria salute, come non può convincerlo a considerare la propria salute più importante della felicità o dell’ambizione”.
Ma togliamo di mezzo qualunque dubbio. Assumere droghe, che si tratti di the, eroina, caffè, alcol, marijuana, tabacco, cocaina o ecstasy, fa male. E togliamo di mezzo anche un altro equivoco: non ci sono scusanti, sarebbe sempre meglio non farlo. Eppure, nella condizione in cui si trova la legislazione italiana, è molto difficile distinguere tra i danni dovuti all’abuso di sostanze e quelli che sono stati invece provocati dalla stessa proibizione, dalla ‘war on drugs’.
Oltre all’ormai nota ‘bulimia carceraria’ degli ultimi anni, che ha portato più di 20.000 persone (dati West, 30 giugno 2016) ad essere condannate e detenute per reati minori legati alla droga, si registra una autentica persecuzione di massa se si pensa che alla maggior parte di queste persone è stata appiccicata addosso l’etichetta di ‘drogato’. Questo stigma di fatto impedisce il reintegro nella società con una occupazione legale (chi vorrebbe assumere un drogato?) e porta all’emarginazione di questi soggetti, incapaci di essere accolti da nessun’altro mondo se non da quello della droga, dal quale sono appena usciti. Senza contare sono molti i consumatori che commettono crimini per poter disporre del denaro necessario per acquistare la sostanza. Si potrebbe dire che la proibizione, mantenendo alto il prezzo degli stupefacenti, dissuada dall’uso (W. Hall e M. Lynskey, 2016). Per contro, è proprio l’illegalità di tale commercio che, facendone aumentare il prezzo, potrebbe indurre qualche consumatore a dedicarsi al furto o allo spaccio per poter disporre del denaro. E non si tratta solo di piccola criminalità. Purtroppo dal parere inviato il 1 luglio dalla Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo alle Commissioni giustizia e affari sociali della Camera dei deputati si evince che “il traffico illegale di stupefacenti – compreso quello della cannabis – alimenta e moltiplica le risorse finanziarie delle organizzazioni di tipo mafioso (nazionali e non) e dunque, fra l’altro, la loro capacità di produzione della cannabis”.
È dunque la droga o la proibizione di essa a essere criminogena? La questione è molto delicata e l’osservazione statistica in questo campo è del tutto inutile, visto che ‘droga’ e ‘criminalità’ sono due variabili correlate (rilevabili in concomitanza), ma tra cui è impossibile dimostrare un rapporto di causa-effetto.
Inoltre, connaturate al contesto di illegalità, pratiche di adulterazione e degenerazione della qualità delle sostanze sono all’ordine del giorno. Si tratta di prassi economicamente proficue sia perché permettono ‘tagli’ delle sostanze vantaggiosi per il pusher, sia perché aiutano a eludere i controlli riportando la composizione chimica appena al di fuori della legislazione.
Ma una delle argomentazioni più utilizzate per giustificare la reticenza nei confronti della legalizzazione resta il rischio della ‘gateway hypothesis’, ovvero del passaggio alle droghe pesanti. Formulata nel 1955, in un’audizione al senato da Harry Anslinger questa ipotesi vede nelle droghe leggere (come la cannabis) una porta capace di condurre verso le droghe pesanti. Anche ammettendo la distinzione (molti studi dissentono a questo proposito, i.e. Amato e Davoli, 2014), non esistono basi scientifiche a supporto di questa ipotesi (MacCoun, Reuter, 2001). Quindi, lungi dall’essere effettivamente indotto dall’uso di marijuana, l’effetto gateway potrebbe piuttosto essere favorito dal regime di illegalità che caratterizza la cannabis e quindi dalla sua compresenza, sul mercato illegale, con sostanze ben più pericolose.
Ci troviamo quindi all’interno di uno scenario complesso, in cui non è possibile operare delle scelte facendo ricorso esclusivamente alle cosiddette scienze esatte. Eppure oggi assistiamo alla continua discesa in campo di scienziati, farmacologi, psichiatri, tossicologi e altri esperti in materia che pretendono di dettare legge. Tutti incapaci di rendersi conto che, come sostiene lo psichiatra Giovanni Jervis, “per l’ideologia dominante, la ‘droga’ non è affatto riducibile a un insieme di sostanze chimiche: è piuttosto un virus, un’infezione contagiosa; anzi, più che questo, una possessione. Di fatto, il concetto di possessione demoniaca nell’occidente cristiano costituisce il precedente storico più significativo dell’attuale ideologia sulla dipendenza. La possessione era identificata come uno stato psichico a cui veniva attribuita la capacità di espropriare totalmente la volontà del soggetto”.
Senza contare che la droga non è mai solamente la droga, ma l’interazione della sua composizione chimica con la ‘chimica’ del consumatore e con il contesto culturale di consumo. Le droghe, infatti, sono dei quasi-veleni. La questione è cercare di evidenziare in quali circostanze individuali, sociali e con che dosaggi esse possano diventare socialmente pericolose o fisicamente letali, esattamente come veleni.
La difficile scelta sulla legalizzazione quindi, non può esimersi dal considerare questi argomenti e la speranza è che la discussione della proposta di legge italiana prevista a partire dal 25 luglio alla camera ne tenga conto.
E speriamo in una scelta sensata. Perché di errori, come semplicizza (forse troppo) Mark Twain, ne sono già stati fatti fin troppi in passato. “Adamo era solo un essere umano, e questo spiega tutto. Non voleva la mela per amore della mela. La voleva perché era proibita. Lo sbaglio di Dio fu quello di non proibirgli il serpente. Perché allora avrebbe mangiato quello”.